A trentasei anni è uno dei più rinomati drammaturghi britannici contemporanei, con oltre venti lavori teatrali già messi in scena. Mike Bartlett, inglese di Oxford, è un autore rappresentato ormai non solo in Gran Bretagna, ma anche all’estero.
In Italia è stato molto apprezzato lo spettacolo Cock, diretto da Silvio Peroni, la vicenda di una coppia gay che va in crisi quando uno dei due s’innamora di una ragazza; mentre debutta in questi giorni l’inquietante Bull, vincitore del National Theatre Awards 2013 come miglior lavoro originale, che racconta la ferocia e le distorsioni del mondo del lavoro di oggi. Bartlett scrive anche per la televisione: sua è la serie televisiva Doctor Foster, trasmessa da Bbc One, vincitrice del National Television Awards 2016; mentre lo scorso anno ha scritto un episodio della serie Doctor Who.
Cosa significa per lei scrivere per il teatro contemporaneo?
È un’occasione per raccontare storie complicate a un pubblico che le vive in maniera concentrata e collettiva, non mediata, non veicolata su schermi differenti. Il teatro non si può fermare e non si può riavvolgere. E la reazione del pubblico in sala, presente, implica che le reazioni sono condivise con gli altri. Ma il teatro è anche per sua natura una forma metaforica: qualsiasi cosa si metta in scena, rappresenta qualcos’altro, e questo carica il fatto di significato. L’essenza del mettersi davanti a un pubblico lascia le storie e i personaggi senza un luogo per nascondersi; ad ogni istante il pubblico si accorge di quel che suona falso. Perciò nel mondo contemporaneo, in cui la verità è messa continuamente in dubbio, il teatro appare particolarmente vitale.
Lei scrive principalmente di temi che riguardano le relazioni umane nel mondo di oggi, soprattutto quello britannico. Pensa che il teatro possa influenzare la società?
Sì. Credo che più di frequente il teatro modifichi il punto di vista degli individui sul mondo, cosicché quando affrontiamo nel mondo reale di nuovo un certo argomento, o abbiamo una determinata esperienza, il nostro punto di vista è cambiato perché abbiamo assistito a un’opera teatrale. E tuttavia in rare occasioni gli spettacoli e il teatro stesso possono cambiare in maniera più ampia gli atteggiamenti della società. Il teatro è stato spesso in prima linea nel cambiamento della mentalità politica e sociale. Costa meno rispetto ad altri mezzi, e quindi può essere più radicale.
I suoi lavori vengono tradotti e rappresentati anche all’estero. In Italia ad esempio abbiamo visto di recente «Cock», un testo centrato su un piccolo sistema di relazioni dall’equilibrio instabile. Su teatro.it il nostro critico Alessandro Paesano ha scritto «una delle più interessanti, ben concepite, perfettamente scritte commedie contemporanee d'oltremanica». Come è nato questo testo?
Mi trovavo ad un incontro fra drammaturghi a Città del Messico, dove ogni tanto si tengono i combattimenti fra galli, e quella circostanza mi ha fornito la forma per la commedia. Avevo a lungo riflettuto su quanti amici avevo la cui sessualità non ricadeva esattamente in una “categoria”. Per me un’opera teatrale si realizza quando la forma e il contenuto arrivano allo stesso istante, ed è fortunatamente quel che è successo in questo caso!
Nella commedia una coppia gay si rompe perché uno dei due ragazzi s’innamora di una ragazza ed è attratto dalla prospettiva di una famiglia tradizionale. È la pressione sociale che vince sulla libertà dell’individuo?
In realtà la coppia gay non si rompe: il personaggio principale John non è sicuro se sia attratto dalla donna perché rappresenta la norma sociale o semplicemente perché si è innamorato di lei. Nella commedia la pressione sociale non è tanto quella che spinge John ad essere etero, ma quella che lo spinge a prendere una decisione chiara per definirsi. Lui preferirebbe lasciare la questione aperta, non saperlo, e semplicemente innamorarsi di chiunque. Ma in questo lavoro la società vuol sapere cosa lui sia: vuole categorizzarlo.
«Bull» sta debuttando in Italia in questi giorni, sarà a Milano subito dopo Pasqua; è una vicenda spietata, paradossale, di sopraffazione fra lavoratori. Che rapporto c’è fra il suo teatro e la realtà?
Direi che quel che scrivo cerca di raggiungere la verità; in genere non attraverso il naturalismo, ma trovando forme che riescano a rappresentare accuratamente il senso di un’esperienza, o che possano raccontare storie in modo innovativo. Il teatro deve essenzialmente narrare la realtà in cui viviamo, ma a volte può farlo vestendosi di metafore, o di gioco, o di cabaret, che sono tutt’altro che naturalistici.
Quali sono i suoi autori teatrali di riferimento?
Shakespeare, Cechov, Pinter, Mamet, Tony Kushner, Miller, Brecht, Caryl Churchill, debbie tucker green [il nome della drammaturga britannica è in minuscolo nell’originale, così come di norma viene scritto, n.d.r.], Ionesco, e anche alcuni gruppi come Unlimited, Forced Entertainment e The Team.
Cosa cerca in una messa in scena quando va a teatro da spettatore?
Qualcosa di nuovo, che modifichi il mio modo di pensare e di sentire.
Lei ha scritto anche una serie televisiva. Si può mantenere una certa acutezza narrativa anche con questa forma?
Dipende da ciò che lei intende con “acutezza narrativa”. Per molti aspetti la tv è molto più guidata dalla narrativa rispetto al teatro, ma sono due cose differenti. Credo che oggi la televisione stia attraversando uno splendido periodo in tutto il mondo, raccontando storie epiche ad un vasto pubblico con autentica precisione e un dettaglio eccezionale.
Mi dice tre lavori teatrali di ogni tempo che tutti dovrebbero vedere?
Me la faccia chiamare “la lista di oggi”. Sono certo che domani, e ogni giorno, cambierà.
- Angels in America (Tony Kushner)
- Riccardo II (William Shakespeare)
- Il rinoceronte (Eugène Ionesco), così attinente a quello che accade di questi tempi.